La Responsabilità dei Vescovi per la Chiesa Universale in tempo di Confusione

Il Vescovo è il pastore e il custode dell’ovile di Dio. Il suo ministero non deriva solo dalla legislazione umana dell’istituzione ecclesiastica, ma anche da una vocazione soprannaturale. I Vescovi sono i successori degli Apostoli e nella loro missione si realizza la missione di Cristo per la santificazione e la salvezza delle anime; da ciò derivano gli obblighi più gravi anche in una situazione in cui si deve affrontare il fatto dell’eresia.

Oggi molti cattolici sono sempre più convinti che l’eresia stia invadendo il grembo della Chiesa. Alcuni fedeli ritengono che sia già in atto uno scisma “de facto”, anche se non è sancito “de jure”. Dopo tutto, in molte parti della Chiesa si predica una dottrina che può essere compresa o almeno interpretata in modi che la distaccano dal “depositum fidei”, questo crea una situazione eccezionale.

Da un lato alcuni Vescovi sostengono cambiamenti di vasta portata nella dottrina e nella morale della Chiesa; dall’altro lato quegli stessi Vescovi costituiscono una parte importante del collegio episcopale, godendo spesso del tacito sostegno del Vescovo di Roma o almeno di una mancanza di reazione che corregga le loro azioni e per questo motivo, un Vescovo preoccupato per il deposito della fede, si trova in una posizione estremamente difficile.

Dopo tutto, in una situazione in cui la fede è minacciata, è lui il primo custode della fede di cui deve rendere conto a Colui che lo ha chiamato. Tuttavia un Vescovo può legittimamente temere che, parlando apertamente contro queste inclinazioni riformiste, agisca contro la collegialità, il che potrebbe significare cadere nello scisma. Questo timore è di per sé legittimo, la sua assenza potrebbe significare una mancanza di prudenza da parte del pastore o un’incapacità di comprendere la propria autorità che gli è stata data da Cristo nella Chiesa, attraverso la Chiesa e per il bene della Chiesa. Questa autorità, del resto, perde la sua legittimità in caso di opposizione alla Chiesa.

Che cosa deve fare, dunque, un Vescovo quando si verifica un’eresia non solo nella sua chiesa particolare, ma anche nel più ampio contesto ecclesiale?

In una situazione così difficile, c’è la tentazione di spostare completamente la preoccupazione del Vescovo sulla custodia del deposito solo nella sua diocesi, lasciando i problemi dottrinali al di fuori della sua diocesi a un’autorità superiore, il Papa.

Tuttavia, se un Vescovo si limita a curare solo la propria diocesi, allora, per questo stesso fatto, sta già trascurando la preoccupazione di custodire il deposito della Chiesa universale a cui è obbligato.

Inoltre, accettando di sancire cambiamenti nella dottrina o nella morale in altre Chiese particolari, egli sta in realtà accettando di sancire l’errore nella Chiesa universale. Questo, a sua volta, riguarda realisticamente anche la sua diocesi che è parte e incarnazione di questa Chiesa universale (Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica su alcuni aspetti della Chiesa concepita come comunione („Communionis Notio”, n. 7).

Le soluzioni giuridiche e dottrinali contenute nei pronunciamenti del Magistero sul ministero del Vescovo non forniscono chiare prescrizioni su come procedere in tempi di crisi (cfr. „Supplemento”). La storia della Chiesa, intanto, ci insegna che, nonostante l’assistenza e la protezione dello Spirito Santo di cui gode la Chiesa e nonostante la garanzia che la Chiesa durerà conservando intatto il deposito della fede fino al ritorno del Salvatore, i singoli Vescovi possono cadere in errore (anche la maggioranza – come accadde nella crisi ariana). In alcune affermazioni, escluse quelle fatte ”ex cathedra”, anche lo stesso successore di San Pietro, nella persona del Papa, il cui compito particolare è quello di custodire il deposito e di rafforzare i fratelli nella fede, può cadere in errore. È il caso, ad esempio, di Papa Onorio I, che fu condannato postumo nel Terzo Concilio di Costantinopoli per aver avallato l’eresia del monotelismo (Concilio di Costantinopoli III, Lezioni sulla fede, n. 8).

In una situazione del genere, sorgono diverse domande. Le risposte a queste possono delineare per noi un possibile modo di rispondere all’emergenza.

In primo luogo e’ necessario riflettere su cosa sia la Chiesa, cioe’su quale sia il mistero della Chiesa. Questo va fatto nel contesto del rapporto tra Chiesa e Magistero, perché questa relazione non sembra essere così chiara come la si intende colloquialmente. La voce del Magistero è giustamente considerata la voce della Chiesa, ma non c’è identità assoluta tra Magistero e Chiesa.

È poi necessario considerare il ruolo e la competenza del Magistero della Chiesa.

Infine, ci si deve chiedere quale possa essere la reazione e l’intervento dei Vescovi preoccupati per la Chiesa, affinché non abbandonino il compito di custodire lo spirito di Dio nella propria diocesi e di prendersi cura del deposito di tutta la Chiesa, pur non disconoscendo la collegialità che sancisce l’autorità del Vescovo. Sarà importante presentare qui alcuni criteri che dovrebbero essere il banco di prova dell’impegno del Pastore per un’adeguata risposta ecclesiale ai pericoli nella Chiesa.

Le principali conclusioni della nostra analisi sono le seguenti:

  • Il Vescovo diocesano deve salvaguardare l’unita` di tutta la Chiesa.
  • Quando si verifica una situazione di proclamazione di un errore in una Chiesa particolare, diversa dalla propria, il Vescovo e` obbligato a reagire.
  • Tacere sull’esistenza di un’eresia in una parte della Chiesa universale, equivale ad acconsentire alla presenza di quell’errore nella propria diocesi.
  • Intervenire quando l’integrita`del deposito della Fede viene violata, sia all’interno della propria diocesi che nella Chiesa universale, e`un obbligo del Vescovo, derivante dalla missione di Cristo stesso.
  • Il catalogo delle situazioni che richiedono un intervento e` molto ampio e la situazione della proclamazione di tesi, in palese contraddizione con il deposito della fede o di tesi dubbie ed ambigue, e` la prima a richiedere una risposta.

La Chiesa è una realtà complessa. Il Vaticano II utilizza una varietà di immagini per avvicinare questo mistero (cfr. Vaticano II, Lumen Gentium, capitolo 1). La descrizione più alta del mistero della Chiesa è quella di chiamarla Corpo Mistico di Cristo, poiché questo termine esprime al meglio la relazione tra i suoi elementi umani e divini: „Perciò, per stretta analogia, assomiglia al mistero del Verbo incarnato. Infatti, come la natura umana assunta serve il Verbo di Dio come strumento vivente di salvezza, indissolubilmente unito a Lui, così l’organismo sociale della Chiesa serve lo Spirito di Cristo che lo anima per la crescita del corpo” (Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, n. 8).

Questa complessità, da un lato, non permette di ridurre la Chiesa a un’istituzione puramente umana e, dall’altro, non consente al cattolico di concepire la Chiesa come una realtà meramente spirituale e distaccata, ma al massimo realizzata nel tessuto sociale umano visibile: „Essa non deve essere solo una e indivisibile, ma anche qualcosa di concreto ed evidente, come insegna il Nostro predecessore il compianto Leone XIII nell’enciclica  „Satis cognitum”: (essendo il Corpo, la Chiesa è visibile agli occhi) . Perciò, lontani dalla verità di Dio sono coloro che immaginano per sé una simile Chiesa, che non si può toccare né vedere ma è qualcosa di molto spirituale, pneumatico, come dicono, così che molte società cristiane, sebbene la loro fede differisca nel contenuto, sono tuttavia unite l’una all’altra da un nodo invisibile” (Pio XII, Mystici Corporis, n. 13). E ancora: „Da quanto abbiamo finora discusso, scritto ed esposto, Venerabili Fratelli, appare evidente quanto grande sia l’errore di coloro che si creano arbitrariamente una Chiesa invisibile e nascosta o anche che la mettono sullo stesso piano di un’istituzione puramente umana, con un certo sistema di formazione e di riti esterni, ma senza dare alcun tipo di vita soprannaturale” (Pio XII, Mystici Corporis, n. 52).

Questo insegnamento è confermato anche dal Concilio Vaticano II: „Cristo, unico mediatore, ha istituito la sua Santa Chiesa, questa comunità di fede, speranza e carità qui su questa terra, come un organismo visibile; inoltre la mantiene continuamente in vita, riversando per mezzo di essa la verità e la grazia a tutti”. La Chiesa terrena e la Chiesa ricca di doni celesti, dotata di organi gerarchici, comunità e allo stesso tempo Corpo mistico di Cristo, associazione visibile e comunità spirituale, non possono essere intese come due cose separate; al contrario, formano una sola realtà complessa, che unisce gli  elementi umani e non  (Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, n. 8).

Come ci ricorda la Dichiarazione „Dominus Iesus„, c’è dunque una sola Chiesa di Cristo che sussiste nella Chiesa cattolica governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui… . I fedeli non devono quindi pensare che la Chiesa di Cristo sia un insieme di Chiese e Comunità ecclesiali – per quanto diverse – che sono in qualche modo unite; né devono pensare che la Chiesa di Cristo non esista più oggi in nessun luogo e che quindi debba essere solo oggetto di ricerca da parte di tutte le Chiese e comunita’” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Dominus Iesus, n. 17). La ferma consapevolezza di questa verità e il radicamento in essa suscitano nel cuore di molti pastori un giustificato timore a non pronunciarsi contro questa vera Chiesa e le sue sentenze. Infatti, data la natura dell’unione degli elementi divini e umani nella Chiesa, è difficile opporsi alla voce del Magistero e allo stesso tempo difendere la fedeltà alla Chiesa. Si teme qui di separare la Chiesa spirituale dalle sue strutture visibili. Sembra più sicuro identificare rigorosamente la voce del Magistero con la voce di Cristo stesso – indipendentemente dal contenuto dato dal Magistero.

Il timore di separare i due elementi della Chiesa è oggi associato a due errori. In primo luogo, la Chiesa si identifica con la gerarchia      o relativamente con il suo magistero. In secondo luogo, in nome della paura di separare i due elementi, si verifica un’identificazione, forse inconscia, tra di essi. Intanto, per quanto riguarda il primo aspetto, la Chiesa insegna che „non bisogna però pensare che questo ordinato dispiegarsi, organico, come lo chiamano, della struttura del Corpo della Chiesa, sia limitato ai soli gradi della gerarchia ecclesiastica. Né è vero ciò che proclama l’insegnamento contrario, cioè che la Chiesa è composta solo dai cosiddetti carismatici, cioè da uomini dotati di straordinari doni divini, che si trovano sempre nella Chiesa” (Pio XII, Mystici Corporis, n. 15).

Chi diventa Vescovo lo diventa come membro e frutto di questa Chiesa-Madre, come membro di quella comunità di fede che lo ha fatto nascere, guidato ed eletto. Questa „linea ascendente” propria del Vescovo non deve mai essere trascurata o coperta dal silenzio, né cancellata da un’altra dimensione del potere, della santificazione, dell’impronta cristologica che gli sono dati in virtù della sua consacrazione. Occorre dunque ricordare che il Vescovo è innanzitutto un uomo di Chiesa, nato da essa e da essa chiamato a costruirla, governarla, servirla ed essere in essa soprattutto un buon padre.

Questa distinzione, e la subordinazione gerarchica dei Vescovi al primato della Chiesa, ci permette anche di evitare l’errore di identificare gli elementi divini e umani senza separarli. Questa distinzione è già radicata nell’immagine biblica del Corpo e del Capo che, pur essendo inseparabili, non sono identici: „Come il capo e le membra del corpo vivente, pur non essendo identici, sono inseparabili, così anche Cristo e la Chiesa non vanno identificati, ma neppure separati, perché costituiscono l’unico “Cristo intero” . Questa stessa inseparabilità è espressa anche nel Nuovo Testamento attraverso l’analogia della Chiesa come Sposa di Cristo” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Dominus Iesus, n. 16). La Chiesa è per questo chiamata „Corpo mistico di Cristo” e non Corpo fisico di Cristo, per non dare motivo di identificare né le sentenze del Magistero né lo stile di vita dei membri della Chiesa con la realizzazione dell’esistenza divina di Cristo nella Chiesa. Come il cristiano, pur essendo strettamente unito a Cristo attraverso i sacramenti, può nella sua volontà e ragione compiere atti incompatibili e persino contrari alla volontà di Cristo, così il pastore, che per volontà di Cristo rende presente la sua autorità e dignità, può esprimersi in maniera contraria a Cristo (a parte le eccezioni dell’esercizio del carisma dell’infallibilità).

In modo sintetico, Pio XII ci ricorda che: „Non mancano infatti persone che, trascurando, come è giusto, il fatto che l’apostolo San Paolo ha parlato di questi argomenti solo in senso figurato, non distinguono il significato proprio e distinto di corpo fisico, morale e mistico, che è una questione di assoluta necessità, e, attribuendo oggetti divini agli uomini, rendono Cristo Signore soggetto a errori e le inclinazioni umane al male. Come, da un lato, la fede cattolica e gli insegnamenti dei Padri della Chiesa vengono in maniera ripugnante difesi da tale falso insegnamento, così, dall’altro, la mente e il cuore dell’Apostolo delle Nazioni, che, pur unendo Cristo Signore e il suo corpo mistico in uno strano modo di costruzione, oppone l’uno all’altro come lo sposo alla sposa” (Pio XII, Mystici Corporis, n 73).

Per chiarezza, va ricordato che questa non-identità non può portare alla disconnessione. Non si può, quindi, accettare o rifiutare arbitrariamente l’insegnamento del Magistero. L’interpretazione del Magistero della Chiesa non deve essere trattata come qualcosa di arbitrario e vagamente legato alla verità oggettiva rivelata. Il Magistero, in virtù della sua unione con Cristo nella sua autorità e della sua concomitante non-identità, non possiede le prerogative e la natura di Cristo stesso, ma è dotato di carismi che gli permettono di realizzare la volontà del Signore.

In senso stretto, il carisma dell’infallibilità, che è un dono speciale per custodire il deposito della fede, appartiene alla Chiesa. Il Collegio episcopale e il Papa godono di questo carisma non come proprio, ma come forma data loro per la speciale realizzazione dell’infallibilità della Chiesa (cfr. Concilio Vaticano I, Pastor aeternus, n. 36).

In sintesi, quindi, si può affermare quanto segue:

1) Il timore del pastore di criticare le sentenze del Magistero e del Papa è giustificato dal senso di fedeltà alla Chiesa e dalla collegialità dell’ufficio episcopale;

2) La Chiesa non è un’istituzione meramente umana e i pastori, per mandato di Cristo, sono chiamati a custodire le guide di Dio e sono abilitati dallo Spirito Santo a svolgere questo compito;

3) Il Magistero della Chiesa è dotato di doni e carismi per custodire il deposito della fede;

4) La voce del Magistero non deve sempre essere assolutamente identica alla verità oggettiva rivelata (a parte le solenni sentenze dottrinali e morali);

5) Questo non significa che il Magistero possa essere ignorato in questioni diverse dalle sentenze dogmatiche;

6) Ciò pone ai singoli Vescovi l’obbligo di adoperarsi con cura per la purezza e l’unità della dottrina della Chiesa, in modo tale da non oltrepassare le proprie prerogative al di sopra del Magistero, e allo stesso tempo non abbandonare il compito di prendersi cura del bene di tutta la Chiesa.

Determinare in cosa consista questa preoccupazione dell’ultimo punto sembra particolarmente problematico. Per determinarlo, è necessario innanzitutto ricordare quale sia l’autorità nella Chiesa detenuta dal Papa, dal Collegio episcopale e dai singoli Vescovi a turno. È poi necessario specificare in quali casi e in quale misura il Papa, il Collegio episcopale e i singoli Ordinari possono sbagliare. Dopo questa determinazione, saremo in grado di comunicare quale intervento è possibile e in quale misura, e in quale misura il Papa, il Collegio episcopale e i singoli Vescovi sono obbligati a intervenire in caso di errore. Per ragioni formali, tratteremo le tre questioni in modo sintetico.

Al Magistero della Chiesa, costituito dai Vescovi in comunione con il Papa, spetta „il compito di interpretare autenticamente la Parola di Dio scritta o trasmessa dalla Tradizione” ( Vaticano II, Dei verbum, n. 10 ). Il Magistero svolge questo compito autorevolmente in nome di Cristo, il che non significa che sia uguale o superiore alla Parola di Dio e alla tradizione, ma che deve servire a preservare la purezza e l’immutabilità del deposito della fede (cfr. Vaticano II, Dei verbum, n. 10).

Per questo motivo, i fedeli devono sottomettersi al Magistero. Tuttavia, come indicato sopra, né l’istituzione „otica” e la delega dell’autorità alla comunità degli Apostoli con a capo Pietro, né la continuazione della missione apostolica da parte del Collegio episcopale in comunione con il Papa, né l’assistenza dello Spirito Santo e l’equipaggiamento della Chiesa con il carisma dell’infallibilità, garantiscono che ogni pronunciamento di una parte del Collegio o del Papa goda per sua natura dell’infallibilità.


1. Competenza e portata dell’autorità del Papa

Il Vescovo di Roma è il capo visibile della Chiesa. Ha un’autorità ordinaria, personale e diretta. La Santa Sede non è soggetta a nessuno e non può essere giudicata da nessuno. Tuttavia, la storia dimostra che anche il Papa può commettere errori nel suo insegnamento ordinario. L’infallibilità papale si riferisce ai casi in cui l’insegnamento papale ha il carattere di insegnamento ex cathedra. Inoltre, il carisma dell’infallibilità papale è un modo per realizzare l’infallibilità della Chiesa e ha lo scopo di salvaguardare il deposito della fede. Pertanto, questo carisma non ha lo scopo di creare la dottrina, ma di custodirla. Si applica nei casi in cui il Papa risolve una questione controversa su un insegnamento immutabile della Chiesa che non è stato precedentemente formulato in modo definitivo.

Pertanto, ogni credente deve obbedienza di fede soprannaturale alle sentenze ex cathedra del Papa. Mettere in discussione tali sentenze è un atto scismatico di fatto. L’obbedienza di fede è dovuta anche al magistero ordinario papale. Tuttavia, nel caso in cui la ragione illuminata dalla fede percepisca un dubbio sulla continuità tra il deposito eterno e l’insegnamento attuale, o almeno sulla sua interpretazione, è obbligata, in uno spirito di responsabilità verso la Chiesa, a rivelare questi dubbi ai suoi pastori: ciò che i santi pastori, come rappresentanti di Cristo, spiegano come maestri della fede o decretano come guide della Chiesa, i fedeli, consapevoli della propria responsabilità, sono tenuti a compierlo con cristiana obbedienza (…) Secondo le loro conoscenze, competenze e capacità, che possiedono, hanno il diritto, e talvolta anche il dovere, di rendere nota la loro opinione ai santi pastori nelle questioni che riguardano il bene della Chiesa e conservando l’inviolabilità della fede e dei costumi, il rispetto verso i pastori, tenendo conto del bene comune e della dignità della persona, di renderla nota agli altri fedeli” (CCC, can. 212, § 1 i 3).

Tale atto è legittimo per l’autorità vincolante della coscienza: „La coscienza è la legge del nostro spirito, ma la supera; ci ammonisce, ci fa conoscere la responsabilità e il dovere, il timore e la speranza… È l’araldo di Colui che, sia nel mondo della natura che in quello della grazia, ci parla attraverso il velo, ci istruisce e ci dirige. La coscienza è il primo di tutti i governatori di Cristo” (CCC 1778).

In modo particolare, il collegio episcopale e i singoli vescovi sono tenuti a reagire in caso di dubbi sull’insegnamento papale ordinario, che potrebbe non essere in continuità con quello precedente. Tuttavia, a nessuno è consentito esprimere un giudizio autoritario sull’insegnamento papale. Non è lecito disattendere e ignorare questo insegnamento e insegnare il contrario nella propria diocesi, rompendo così il legame con il Papa. Si possono e si devono invece esprimere liberamente i propri dubbi alla Santa Sede. È libero e corretto porre domande per chiedere chiarimenti su una questione dubbia. Può infatti accadere che il discernimento di un vescovo o di un fedele sulla rottura della continuità sia solo apparente. In tal caso, la Santa Sede è tenuta a dissipare i dubbi dei Vescovi e dei fedeli (il Vescovo di Roma, pur avendo l’autorità suprema, la esercita insieme al Collegio episcopale).

In assenza di chiarimenti, e nel caso in cui permanga un dubbio e una convinzione di coscienza sulla contraddizione del nuovo insegnamento con il deposito precedente, il Vescovo ha il diritto di astenersi dall’ attuare l’insegnamento, segnalando ai fedeli il conflitto sorto, per non suscitare l’ansia e i dubbi dei fedeli sulla permanenza del vescovo nella comunione con il Papa e il Collegio. In altre parole, è proprio in nome della collegialità e dell’unità della Chiesa che il Vescovo ha il diritto di esprimere dubbi e di vigilare sul deposito immutabile della fede.


2. Poteri e autorità del Collegio

Come già detto, il Collegio episcopale mantiene la sua legittimità agendo sempre in comunione con il Papa. Il Collegio episcopale può insegnare in modo solenne, come avviene nei Concili – anche tale assemblea mantiene la sua legittimità agendo in comunione con il Vescovo di Roma. Il Collegio episcopale, quindi, né in toto né in parte, può agire contro l’unità con il ss apostolico di Pietro – si tratta di unità dottrinale e morale. Pertanto, non è legittimo emettere sentenze del Collegio che siano contrarie alla Santa Sede.

Pertanto, se un organo episcopale (conferenza episcopale o sinodo locale) emette sentenze che sollevano dubbi riguardo all’ortodossia, alla conservazione della comunione e dell’unità con il deposito precedente, ecc. Se non condanna l’errore o addirittura lo approva, e tuttavia tra gli altri Vescovi tali sentenze appaiono errate, allora questi Vescovi sia collettivamente che individualmente sono obbligati a rispondere.

Una situazione del genere si può vedere, ad esempio, nel caso del Cammino Sinodale in Germania e delle sue sentenze e della reazione ambigua o insufficiente della Santa Sede o nella situazione dell’introduzione del rito della benedizione delle coppie omosessuali da parte dell’episcopato belga. La reazione dei Vescovi in una simile situazione dovrebbe essere, in primo luogo, quella di ammonire i Vescovi che introducono sentenze errate; in secondo luogo, di appellarsi alla Santa Sede chiedendo una reazione inequivocabile per il bene e l’unità della Santa Chiesa e per la preoccupazione della salvezza delle anime.


3. L’autorità e i poteri dei Vescovi

Il Vescovo ha un’autorità ordinaria, personale e diretta nella sua diocesi. Ciò significa che, sebbene la legittimità della sua autorità implichi che la eserciti in unione collegiale con l’intero “colegium” e il suo capo, la sua autorità nella diocesi non è un’autorità delegata. Il Vescovo, quindi, nell’esercizio ordinario della sua autorità di governo nella diocesi, esercita il compito del magistero della Chiesa.

Questo perché la diocesi non è semplicemente una parte costitutiva della Chiesa universale, ma ne è l’incarnazione con tutti i suoi elementi essenziali (Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica su alcuni aspetti della Chiesa concepita come comunione „Communionis Notio”, n. 7). Le Chiese particolari sono quindi sia parte di popolo di Dio sia una rappresentazione della Chiesa universale, e come Chiese particolari sono affidate alla cura del Vescovo diocesano e dei sacerdoti che collaborano con lui (cfr. Decreto sui compiti pastorali dei Vescovi nella Chiesa 2002 „Christus Dominus”, n. 11). Il Vescovo, quindi, incaricato di una Chiesa particolare, può esercitare il suo ufficio pastorale solo in relazione a questa parte del  “ludu” di Dio e non ha alcuna autorità per governare altre Chiese      o la Chiesa universale. Tuttavia, ciò non lo esime dal dovere di prendersi cura, insieme agli altri vescovi, di tutta la Chiesa (cfr. Costituzione dogmatica sulla Chiesa 2003, n. 23).

Infatti, „il Vescovo, in quanto successore degli Apostoli, in virtù dell’ordinazione episcopale e grazie alla sua permanenza nella comunione gerarchica, è la fonte visibile e il garante dell’unità della sua Chiesa particolare” (Congregazione per i Vescovi, Direttorio sul ministero pastorale dei vescovi „Apostolorum successores„. Roma n. 4), ma allo stesso tempo „ogni Vescovo è responsabile di tutta la Chiesa universale e le deve la sua cura e la sua assistenza” (cfr. Vaticano II, Lumen Gentium, n. 23). „Tutti i Vescovi, infatti, hanno il dovere di rafforzare e salvaguardare l’unità della fede e la disciplina comune di tutta la Chiesa, di insegnare ai fedeli ad amare l’intero Corpo Mistico di Cristo, in particolare le sue membra, i poveri, gli afflitti e coloro che soffrono persecuzioni per amore della giustizia” (cfr. Vaticano II, Lumen Gentium, n. 23).

Dalle sentenze sopra indicate derivano diverse conclusioni. Il Vescovo governa ed esercita in modo autonomo l’ufficio pastorale nella sua diocesi. Tuttavia, non può farlo in modo isolato dalla Chiesa universale. Egli svolge in modo particolare la missione universale della Chiesa e incarna in un contesto particolare la totalità del mistero del Corpo di Cristo. A causa del legame collegiale di unità con gli altri Vescovi e il Papa, non ha alcuna autorità sulle altre Chiese particolari. Tuttavia, a causa della preoccupazione per l’intera Chiesa che deriva da questa unità, non può essere indifferente agli errori che sorgono nelle altre Chiese particolari. Così, quando si verifica una situazione di proclamazione di un errore in una Chiesa particolare diversa dalla propria o quando un tale errore, o almeno il sospetto di un tale errore, appare in altri casi (menzionati in precedenza), allora, a causa della preoccupazione per l’intera Chiesa universale, il Vescovo non può tacere, ma è obbligato a rispondere come indicato sopra.

Allo stesso tempo, a causa della sua autorità diretta sulla propria Chiesa particolare, esattamente nelle stesse situazioni, il vescovo è obbligato a rispondere. La Chiesa particolare è la presenza della Chiesa universale. Se in qualche parte della Chiesa universale sorge un’eresia che è sanzionata almeno dal silenzio, il Vescovo accetta “de facto” di rendere presente (magari in differita) questo errore nella propria diocesi, nel caso in cui anche lui stesso rimanga in silenzio sulla questione. Così, se attualmente un Vescovo diocesano si oppone, ad esempio, alla benedizione delle unioni omosessuali, vedendo in questo atto una rottura con l’insegnamento antropologico tradizionale della Chiesa e con l’insegnamento sulla gravità del peccato e sulla dignità del matrimonio, e allo stesso tempo esercitando una moderazione nell’ammonizione, vedendo l’approvazione della Santa Sede nei confronti della Chiesa belga, che ha introdotto tale rito come normativo e vincolante, il Vescovo tacito ha così acconsentito all’eventuale realizzazione di questa norma nella propria diocesi ed è responsabile di questo atto.

Anche se, al momento, conserva la speranza che la sua diocesi non sarà colpita da questo errore durante il suo ufficio pastorale, è responsabile dell’introduzione di questa norma in futuro – forse durante l’ufficio del suo successore – poiché è stato lui, e non il successore, a tacere quando un simile errore si è verificato in un’altra parte della Chiesa universale – e la Chiesa particolare è l’effettiva realizzazione della Chiesa universale, non una parte staccata e autonoma di essa.

Quindi, data la natura della collegialità e la struttura della Chiesa universale, è importante notare che la collegialità non ha il solo scopo di subordinare i Vescovi agli errori liberali approvati dalle autorità superiori, ma di salvaguardare l’unità. Non è il Vescovo a rompere la collegialità opponendosi alle nuove idee dei Vescovi tedeschi o belgi, ma sono proprio i vescovi tedeschi e belgi a rompere la collegialità. Esattamente il contrario: la particolarità delle Chiese non deve servire a costruire una falsa convinzione di sicurezza sul „proprio” territorio, ma costituisce un impegno a prendersi cura anche della Chiesa universale. È quindi sbagliato mettere in opposizione o in dicotomia particolarità e universalità della Chiesa. La preoccupazione per la Chiesa particolare è sempre una preoccupazione per la Chiesa universale e viceversa.

Il diritto di un Vescovo di proclamare una dottrina non adulterata nella propria Chiesa particolare è allo stesso tempo una preoccupazione e un obbligo per la purezza dottrinale di tutta la Chiesa. Pertanto, custodire la dottrina e intervenire quando l’integrità del deposito della fede viene violata, sia nella propria diocesi sia nel foro della Chiesa universale, non è solo un diritto derivante dal mandato dell’ufficio episcopale, ma anche un obbligo dovuto alla missione di Cristo.

In sintesi, nella situazione eccezionale in cui il Papa o una parte del collegio episcopale (anche una parte più ampia), in comunione e con l’approvazione del papa, o singoli vescovi, contando almeno sulla tacita approvazione del Papa, proclamano opinioni che rompono con la dottrina precedente della Chiesa (o almeno danno l’impressione di una rottura), i Vescovi, desiderosi di svolgere il compito di salvaguardare la dottrina sia nelle proprie diocesi sia di esercitare la preoccupazione per la Chiesa universale, si trovano di fronte soprattutto al problema di mantenere l’unità collegiale con la Chiesa e il suo magistero. Quando, in risposta ai problemi nei campi citati, si sottomettono a pronunciamenti discutibili o almeno mantengono un silenzio reticente nei loro confronti, in contrasto con il proprio discernimento sulla reale conservazione del deposito, conservano un’unità solo esteriore e apparente. Una reazione che mettesse direttamente in discussione gli ordini del Papa e del Collegio sarebbe una reazione che porterebbe allo scisma.

Pertanto, l’unica soluzione appropriata, che preserverebbe realmente l’unità con il Papa e il Collegio episcopale e, allo stesso tempo, non porterebbe ad abbandonare il compito di custodire il deposito della fede nella propria diocesi e la preoccupazione per il bene della Chiesa universale, consisterebbe nell’esprimere chiaramente e inequivocabilmente i dubbi (rispetto al Papa e al Collegio), ricordando ed esprimendo chiaramente l’insegnamento perenne della Chiesa, sottolineare la mancanza di continuità e di coerenza delle riforme proposte e, se necessario, in nome della collegialità e della fedeltà alla Chiesa, disimpegnarsi dalla loro attuazione, pur esprimendo gli argomenti a favore di questa posizione (che è la preoccupazione di preservare la fedeltà alla Chiesa e al deposito dato alla Chiesa da Cristo e che nessuna autorità nella Chiesa ha il diritto di cambiare). Questo non è solo il diritto ma anche il dovere di ogni vescovo, derivante sia dalla sua vocazione soprannaturale sia dalla stessa collegialità.

L’analisi di cui sopra indica che i vescovi sono responsabili della custodia del deposito sia nelle loro diocesi sia nel foro della Chiesa universale. A diversi livelli, questo compito deve essere svolto in modo diverso. In una situazione eccezionale, è necessaria anche un’ammonizione fraterna rivolta ai fratelli nell’episcopato e persino al capo del collegio episcopale. Resta da indicare le situazioni in cui è necessario intervenire per la fedeltà alla missione e al ministero del successore di  posti.

La situazione in cui la formulazione e la proclamazione di tesi in palese contraddizione con il deposito di fede richiede una risposta prioritaria. Ovviamente, non si tratta solo di situazioni in cui i dogmi vengono esplicitamente messi in discussione (è improbabile che si verifichino situazioni di questo tipo), ma in cui, ad esempio, vengono reinterpretati in un modo che rompe con il significato contenuto nelle formulazioni dogmatiche al momento della loro formulazione. Inoltre, può essere in gioco quella parte del deposito che non è dogmatizzata, ma che è direttamente o indirettamente legata al deposito immutabile e ne deriva. Un esempio potrebbe essere la richiesta dell’ordinazione delle donne o la concessione del primo grado degli Ordini sacri alle donne. Il tema dell’ordinazione delle donne è stato formalmente chiuso da San Giovanni Paolo II, ma non è stato dogmatizzato con il risultato che di tanto in tanto viene ripreso nel dibattito intraecclesiale. Anche il divieto di ordinare le donne al grado di diacono non è formulato dogmaticamente, ma è strettamente legato alla verità sulla natura dell’ordinazione, che è fortemente documentata e affermata nell’insegnamento della Chiesa.

Oltre alla presunzione di rottura con la dottrina (in vari gradi), le espressioni ambigue nei documenti del Magistero sono motivi di intervento molto significativi. L’ambiguità nelle espressioni dottrinali o morali, o anche nelle richieste di natura pastorale, non deve essere considerata una caratteristica che permette a tali affermazioni di rientrare nell’ortodossia. In effetti, la possibilità di un’interpretazione ortodossa può implicare una cosa del genere e viene spesso addotta come argomento per esentare il Vescovo dall’intervento. Nel frattempo, la possibilità di un’interpretazione eterodossa significa che la formulazione non rientra effettivamente nell’ortodossia e presenta un rischio reale di legittimare l’errore.

Un chiaro esempio della formulazione ambigua e del frutto avvelenato che deriva dalla possibilità di un’interpretazione che rompe con la prassi precedente della Chiesa può essere visto nelle tesi dell’esortazione Amoris laetitia sulla possibilità di ammettere alla comunione i divorziati che vivono in unioni ripetute non sacramentali. L’ambiguità dell’affermazione ha fatto sì che molte chiese particolari abbiano di fatto modificato e/o sanzionato la pratica errata di dare la comunione a persone in peccato grave o in situazione oggettivamente disordinata. La convinzione di alcuni Vescovi che questa interpretazione sia falsa non cambia lo stato delle cose      né, in una sorta di rimprovero, porta alla loro reazione denunciando l’apparenza di una pratica errata. L’ambiguità di un’affermazione non offre, come molti pensano, un’opportunità sicura di attenersi all’ortodossia, ma offre l’opportunità di discostarsene.

Un’altra categoria di situazioni sono le usanze errate che si diffondono senza incontrare la disapprovazione e la correzione dei pastori. Tra le situazioni più comuni di questo tipo ci sono vari esperimenti liturgici che non rispettano la solennità e non sono legati all’essenza del Santo Sacrificio. Un’usanza, un rito o una norma morale nella Chiesa è sempre stata il risultato e il riflesso della verità rivelata. La sanzione di consuetudini che si distaccano e non esprimono la verità rivelata, ma la contraddicono, porta alla costruzione di una convinzione errata sull’essenza stessa della verità che si vuole esprimere. Celebrare la Messa in un modo che la assimila a un concerto o a un pasto unificante fa nascere la convinzione che la Messa sia, in realtà, proprio questo tipo di realtà. In realtà, in modo non verbale, il deposito che i pastori hanno il compito di custodire viene qui alterato e perso.

Gli errori gravi, che richiedono una riflessione e un discernimento approfonditi, sono quelli che non riguardano singoli articoli di fede, ma piuttosto una comprensione globale dell’intera realtà soprannaturale della Chiesa. Si tratta di cambiamenti come: una comprensione preconcetta della missione della Chiesa (come se la missione della Chiesa non fosse un ministero di salvezza eterna, ma un ministero di costruzione del benessere temporale: economico, ecologico, sociale, ecc.); una comprensione errata della sinodalità, che si oppone alla gerarchia; una comprensione errata del senso della fede, che concede a ogni battezzato uguale competenza nel discernimento delle questioni spirituali ed ecclesiali; l’identificazione della coscienza collettiva dei fedeli con la voce dello Spirito Santo, ecc. Errori sistematici di questo tipo significano che all’interno della Chiesa utilizziamo lo stesso deposito, ma lo intendiamo in modo diverso. Qui avviene una rivalutazione, in cui non è il deposito l’elemento che plasma la coscienza dei fedeli, ma è la coscienza dei fedeli (plasmata dallo spirito di questo mondo) il criterio di comprensione del deposito.

L’intervento è richiesto anche da richieste che aprono lo spazio per l’emergere e la sanzione di nuovi errori. Tale postulato è, ad esempio, un pluralismo teologico falsamente inteso. Mentre nella Chiesa è sempre esistito un tipo di pluralismo, in cui le varie verità di fede possono essere comprese in modi diversi ma non esclusivi, bensì complementari (ad esempio, la verità sul significato salvifico del Sacrificio della Croce può essere compresa in chiave di espiazione, propiziazione, compimento, unificazione, ecc.), questo pluralismo è sempre più inteso come legittimante la coesistenza di tesi teologiche diverse che non solo si contraddicono l’una con l’altra, ma non riescono nemmeno a mantenere l’integrità con il deposito della fede.

Un ultimo punto da sottolineare per costruire un buon clima di discernimento è quello di essere consapevoli della differenza tra intenzioni e giustezza. Il fatto che ci siano buone intenzioni tra i responsabili delle decisioni nella Chiesa non è assolutamente un argomento a favore della giustezza e della giusta direzione del cambiamento. Così come il fine non giustifica i mezzi, si può anche dire che le buone intenzioni (mezzi) non legittimano la giustezza del fine (soluzione sbagliata).

Gli effetti delle azioni di un pastore – o gli effetti dell’ inazione – sono di estrema importanza per il benessere spirituale dei fedeli. Possono influire su di loro per decenni o, in casi particolari, anche per un tempo piu’ lungo. Gli esempi di perpetuazione di costumi eccezionalmente buoni o eccezionalmente cattivi in una determinata Chiesa sono numerosi nella storia. Il Vescovo, anche se non introduce lui stesso soluzioni riformatrici nella diocesi a lui affidata, non può accontentarsi di assistere passivamente al fatto che la fede e la morale dei fedeli vengano plasmate dall’esterno dall’esempio di altri. Con il senno di poi, è facile dimostrare che i problemi che sorgono oggi in varie parti della Chiesa hanno origine da negligenze o decisioni sbagliate del passato. Ogni Vescovo dovrà affrontare il giudizio della storia, mostrando meglio del giudizio dei suoi contemporanei o la santità o il suo contrario. Il pastore, tuttavia, dovrà rendere conto del suo governo davanti a un altro giudizio: quello di Cristo stesso come colui che gli ha affidato, attraverso la Chiesa, l’autorità nella diocesi. Mentre davanti agli uomini, a volte anche con successo, si possono nascondere le proprie azioni o la loro mancanza dietro il principio della collegialità, davanti al Giudice questo non sarà possibile. Il suo giudizio riguarderà la responsabilità personale di ogni pastore per come e se si è preso cura delle anime dei fedeli affidati alla sua autorità.

1. CONTESTO TEOLOGICO E STORICO

La parola „vescovo” deriva dal termine greco ἐπίσκοπος(episkopos), che significa custode, guardiano, amministratore, sentinella, pastore. In questo termine la tradizione cristiana sintetizza le funzioni di profeta, sacerdote e re appartenenti ai capi della Chiesa. Il Concilio di Trento insegna che lo „stato gerarchico” comprende soprattutto i vescovi, che hanno preso il posto degli Apostoli come loro successori e sono, come dice l’Apostolo, istituiti dallo Spirito Santo,  per governare la Chiesa di  Dio. (Concilio di Trento, Dottrina sul sacramento dell’Ordine, capitolo IV, cfr. CCC 861n). Questa dottrina è stata ripetutamente affermata e ribadita dal Magistero della Chiesa.

Per volontà di Cristo, i Vescovi, in quanto successori degli Apostoli, sono testimoni e continuatori del mistero della Chiesa (Giovanni Paolo II, Pastores Gregis, n. 1). Così, come la vita e l’attività di Cristo erano un riflesso della presenza del Padre e dello Spirito Santo nel mondo, anche il vescovo è un segno della presenza e dell’attività dell’intera Trinità (Giovanni Paolo II, Pastores Gregis, n. 7). „In presenza del carattere trinitario della sua vita, ogni vescovo nel suo ministero è tenuto a vegliare con amore sul suo ovile, nel quale è stato posto dallo Spirito Santo per guidare la Chiesa di Dio: Nel nome del Padre, di cui rende presente l’immagine; nel nome di Gesù Cristo, suo Figlio, da cui è stato nominato maestro, sacerdote e pastore; nel nome dello Spirito Santo, che dà vita alla Chiesa e sostiene con la sua potenza la debolezza umana” (Giovanni Paolo II, Pastores Gregis, n. 7). Dalla suddetta costituzione trinitaria dell’ufficio episcopale deriva che il vescovo appare nella Chiesa ed emerge dalla Chiesa come colui che esprime la vitalità salvifica costantemente attivata dallo Spirito Santo e come colui che, fino al ritorno di Cristo, deve insegnare, santificare e condurre a Dio il popolo che gli è stato affidato (cfr. At 13,1-3; Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 28).

Sant’Agostino si esprime nello stesso modo quando spiega le parole di San Paolo: „Perciò l’Apostolo dice: ” Se qualcuno desidera l’episcopato, desidera un’opera buona” (1 Tim 3,1). Con questo voleva esprimere che cosa è un vescovato: il nome significa un’opera e non una posizione onorevole. Si tratta infatti di una parola greca, che deriva dal fatto che chi diventa superiore agli altri, li sorveglia, cioè si prende cura di loro. Del resto, la parola „σκοπός” (skopos) contiene cura, e così vπισκοπεîv” (episkopein) può, se vogliamo, essere reso in latino come „superintendere”, cioè  con cura di vigilare su qualcosa. Chi dunque ha amato la funzione di superiore e non rende favori agli altri, non pensi di essere un Vescovo” (Augustinus, De civitate Dei contra paganos XIX, 19, CCL 48, ed. B. Dombard – A. Kalb, Turnholti 1955, 686-687).

Allo stesso modo, il Vescovo di Ippona spiega il significato del luogo elevato del Vescovo: „Questa è proprio Gerusalemme. Ha delle sentinelle. Come ha degli operai che la costruiscono, che lavorano per costruirla, così ha delle sentinelle. Perché alle sentinelle si riferiscono le parole dell’Apostolo: „Temo però che le vostre menti non siano distolte dalla purezza che è in Cristo, come il serpente, con la sua astuzia, sedusse Eva ” (2 Cor 11,3). Egli vegliava, era una sentinella, si adoperava il più possibile per coloro che guidava. Anche i Vescovi fanno questo. Per questo è stato preparato un luogo più alto per i Vescovi, affinché guardino dall’alto e, per così dire, custodiscano il popolo. Infatti, ciò che in greco si esprime con la parola „Vescovo” , in latino significa  sorvegliante , poiché egli sorveglia perché guarda dall’alto il suo popolo. […] Da questo luogo elevato egli fa un resoconto molto dettagliato, che è unito al pericolo, a meno che in cuor vostro non  stiate così in piedi da umiliarvi sotto i vostri piedi” (Augustinus, Enarratio in Ps. 126, 3, NBA 28, ed. V. Tarulli, Roma 1977, 140-142).

Perciò Ippona osserva, seguendo l’apostolo Paolo (Tito 1,9), che può essere eletto Vescovo solo chi comunica nella Chiesa una sana dottrina (doctrina sana), che edifica la fede di tutti coloro che la ascoltano e convince coloro che vi si oppongono (Augustinus, Enarratio in Ps. 67, 39, NBA 26, 620, PSP 39, 186; Augustinus, Sermo 178, 1, 1, PL 38, 961). D’altra parte, nella dimensione negativa, questa proclamazione della Parola di Dio dovrebbe essere una salvaguardia e una guardia dei cattolici contro gli insegnamenti incompatibili con la dottrina della Chiesa propagati dagli eretici, che Ippona chiama ingannatori di menti (vaniloqui et mentium seductores), (Augustinus, Enarratio in Ps. 67, 39, NBA 26, 620, PSP 39, 186).

Il Vescovo, quindi, non può essere equiparato agli altri membri della Chiesa. I suoi compiti, commissionati da Cristo, lo pongono a capo del popolo di Dio. In senso più figurato, l’istituzione dell’ufficio di vescovo è l’istituzione di un ordine gerarchico nella Chiesa, che non può essere sostituito o equiparato all’ordine sinodale nel nuovo senso moderno:

„Perché nella Chiesa c’è un ordine: alcuni vanno avanti, altri seguono. Chi va per primo diventa un esempio per chi segue. Quelli che vanno dietro imitano quelli che vanno davanti; quelli che danno l’esempio a quelli che vanno dietro non seguono nessuno? Se non seguissero nessuno, andrebbero fuori strada. Seguono qualcuno, Cristo stesso. Ebbene, i migliori nella Chiesa, per i quali non c’è più un esempio da seguire tra gli uomini, perché progredendo hanno superato tutti gli altri, hanno come esempio solo Cristo, che seguiranno fino alla fine. E avete visto a vostra volta i passi presentati dall’apostolo Paolo: ” Siate imitatori di me, come io sono imitatore di Cristo   (1 Cor 4,16). Pertanto, coloro che poggiano saldamente sulla roccia siano  un modello per i fedeli” (Augustinus, Enarratio in Ps. 39, 6, NBA 25, 938).

Questo ordine gerarchico deve servire tutta la Chiesa e, per questo motivo, i Vescovi sono particolarmente obbligati a fare attenzione e ad esaminare se sono uno scandalo per i fedeli e se sono anti-testamentari. Già Origene in “Omelia sul Libro dei Numeri” (2, 1) chiede: „Credi che coloro che hanno il titolo di sacerdoti (sacerdote funguntur) seguano sempre i precetti dell’ordinazione (secundum ordinem) che hanno ricevuto, e facciano tutto ciò che si addice al loro stato? Allo stesso modo, credete che anche i diaconi seguano i precetti degni del loro ministero “(secundum ordinem ministerii incedunt)”? Da dove deriva allora che sentiamo gente che si lamenta e dice:  Guardate questo Vescovo, questo presbitero, questo diacono […]   Non è che per caso dicono questo perché vedono un sacerdote o un servo di Dio (vel sacerdos vel minister Dei) che non adempie ai doveri del suo stato?”. L’ufficio, dunque, conferisce un’autorità suprema di Dio, ma non ne garantisce la realizzazione automatica. Tra i gerarchi posti a capo del Popolo di Dio, ci possono essere anche alcuni che non custodiscono questo.

La preoccupazione del Vescovo per il popolo di Dio si applica soprattutto alla Chiesa particolare a lui affidata. Il Concilio Vaticano II ci ricorda che: „I singoli Vescovi a capo delle Chiese particolari esercitano il loro governo pastorale, ciascuno sulla parte del  udu di Dio a lui affidata, non su altre Chiese o sulla Chiesa universale nel suo insieme. Tuttavia, in quanto membri del Collegio episcopale e legittimi successori degli Apostoli, i singoli Vescovi sono obbligati, in virtù dell’istituzione e del comando di Cristo, a preoccuparsi di tutta la Chiesa in modo tale che, pur non esercitando un atto di giurisdizione, contribuisca comunque validamente al bene della Chiesa universale. Infatti tutti i Vescovi hanno il dovere di rafforzare e salvaguardare l’unità della fede e la disciplina comune di tutta la Chiesa” (Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, n. 23).

La comune preoccupazione di tutti i Vescovi per la Chiesa si realizza nella loro collegialità: „Il sacro Concilio insegna che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento del sacerdozio, che sia nella tradizione liturgica della Chiesa sia nei detti dei santi Padri è chiamato sommo sacerdozio o pienezza del sacro ministero. Il sacramento episcopale, insieme alla funzione ufficiale di santificazione, porta con sé anche la funzione di insegnamento e di governo, ma queste funzioni per loro natura possono essere esercitate solo nella comunione gerarchica (communio) con il Capo del Collegio e con i suoi membri” (Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, n. 21).

Collegialità significa che, per quanto riguarda l’autorità, il Vescovo da un lato ha competenza in relazione alla propria diocesi, ma sempre e solo in comunione con tutta la Chiesa. Non ha autorità giurisdizionale e didattica in relazione a tutta la Chiesa. D’altra parte, però, è tenuto a prendersi cura della fede di tutta l’opera di Dio. Perciò il vescovo, pur non avendo il potere di giudicare gli altri fratelli nell’episcopato e il potere di correggerli autorevolmente, è tuttavia tenuto a vigilare sulla purezza della dottrina di tutta la Chiesa e a rispondere a eventuali errori nell’insegnamento di altri Vescovi che dovessero emergere.

Questa azione di esortazione fraterna costituisce uno stato di eccezione al ministero pastorale, che tuttavia ha una sanzione sia nella Scrittura che nella tradizione della Chiesa. Già San Paolo ricorda a Timoteo questo dovere: „Ti incarico davanti a Dio e a Cristo Gesù, che giudicherà i vivi e i morti, e alla sua apparizione e al suo regno: predica la dottrina, imposta la mente al momento giusto, al momento sbagliato, [se necessario] mostra l’errore, istruisci, solleva con ogni pazienza ogni volta che insegni. Perché verrà un tempo in cui non sopporteranno il sano insegnamento, ma secondo i loro desideri  perché hanno le orecchie turate  moltiplicheranno i maestri per se stessi. Si allontaneranno dall’ascolto della verità e si rivolgeranno a storie inventate. Voi, invece, vegliate in ogni cosa, sopportate le difficoltà, fate l’opera dell’evangelista, svolgete il vostro ministero!”. (2 Tim 4, 1-5).

In modo simile, San Gregorio Magno rivolge il suo insegnamento ai pastori: „I discorsi imprudenti portano al peccato, il silenzio imprudente lascia nell’errore coloro che avrebbero potuto essere istruiti. Spesso infatti i pastori negligenti, temendo di perdere il favore del popolo, hanno paura di dire liberamente ciò che è giusto e conforme alle parole della Verità, non custodiscono il gregge loro affidato con lo zelo di un pastore, ma, come i mercenari fuggono alla vista di un lupo, così si nascondono sotto la copertura del silenzio” (S. Gregorio I, Liber Regulae Pastoralis, pars II, cap. 4). Questo ammonimento si applica non solo ai subordinati, ma anche agli uguali nell’autorità, così come ai superiori, come dimostra l’ammonimento di Paolo a San Pietro nella Lettera ai Galati (cfr. Gal 2,11-14) e la tradizione interpretativa di questo testo. San Tommaso d’Aquino commenta questo testo come segue: ” Quando la fede è minacciata, i subordinati devono ammonire i loro superiori anche in pubblico. E così anche Paolo, che era subordinato a Pietro, lo rimproverò pubblicamente, per un minaccioso turbamento in materia di fede. È così che la Glossa di Agostino alla lettera ai Galati (2, 14) lo intende, dicendo:   Pietro diede l’esempio ai suoi superiori affinché, in caso di deviazione dalla retta via, non si indignassero nell’ ammonire i loro subordinati (s. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 33, a. 4, ad 2).

 

1. PANORAMICA LEGALE E CANONICA

„Lo Stato episcopale è collegialmente, insieme al suo capo, il Vescovo di Roma, e mai senza di lui, soggetto di suprema e piena autorità su tutta la Chiesa. Come è noto, il Concilio Vaticano II, nell’esporre questa dottrina ha, al tempo stesso, ricordato che il Successore di Pietro conserva intatta la suprema autorità su tutti, Pastori e fedeli. Il Vescovo di Roma, infatti, in virtù del suo ufficio di Vicario di Cristo e di Pastore di tutta la Chiesa, ha piena, suprema e universale autorità sulla Chiesa, e questa autorità ha sempre il diritto di esercitarla senza restrizioni” (Motu Proprio Apostolos suos, n. 9; cfr. Costituzione conciliare Lumen gentium, n. 22). Queste parole, tratte dalla lettera apostolica di Giovanni Paolo II del 1998, ci ricordano l’unità dell’intero collegio episcopale, con a capo il Papa come Vescovo di Roma (Vescovo della Diocesi di Roma). Egli governa la Chiesa in collaborazione con gli altri Vescovi, e questo è una continuazione del Collegio dei Dodici Apostoli (il Collegio Apostolico) guidato da San Pietro Apostolo. Questa autorità del Collegio è stata espressa da Cristo con le parole: Tutto ciò che legherete sulla terra sarà legato in cielo e tutto ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo (Mt 18,18).

I Padri del Concilio Vaticano II hanno sottolineato che „i singoli Vescovi, ai quali è stata affidata la cura della Chiesa particolare, sotto l’autorità del Papa, in nome del Signore circondano le loro pecore con la cura pastorale      come pastori propri, ordinari e immediati, esercitando verso di esse il ministero di insegnare, santificare e governare” (Decreto Christus Dominus, n. 11). Questa verità espressa dai Padri conciliari è stata elaborata dall’attuale Codice Legislativo specificando che i vescovi sono, per nomina divina, i successori degli Apostoli. Attraverso lo Spirito Santo loro donato, sono istituiti nella Chiesa come pastori, maestri di dottrina, sacerdoti del culto sacro ed esecutori del ministero di governo. Attraverso il sacramento episcopale ricevono così il triplice compito di insegnare, santificare e governare (can. 375 del Codice di Diritto Canonico del 1983 – di seguito: Codice di Diritto Canonico). Il compito del vescovo come maestro della fede è quindi quello di custodire il deposito della fede (depositum fidei) nella sua Chiesa particolare, cioè le verità rivelate della fede e della morale (contenute nella Bibbia e nella Tradizione apostolica). San Paolo ha illustrato questo compito scrivendo al vescovo Timoteo: Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi (2 Tim 1,14). D’altra parte, nel Motu Proprio già citato, San Giovanni Paolo II ha descritto il compito della santificazione con le parole: „Il singolo vescovo, come ministro della grazia del sommo sacerdozio, nell’esercizio della sua funzione di santificazione, contribuisce grandemente all’opera della Chiesa, che è la glorificazione di Dio e la santificazione degli uomini. Questa è l’opera di tutta la Chiesa di Cristo, che agisce in ogni legittima liturgia, celebrata in comunione con il vescovo e sotto la sua direzione” (Motu Proprio Apostolos suos, n. 11).

Il Vescovo diocesano dopo il Concilio Vaticano II è quindi visto più come un pastore che come un governatore, sebbene la sua attività amministrativa sia stata definita con precisione nei documenti ecclesiastici. Infatti, la Santa Sede ha sottolineato la grandezza e la responsabilità di questo ministero, tra l’altro, nel decreto conciliare Christus Dominus del 1965 e nell’Istruzione Ecclesiae imago della Congregazione per i Vescovi del 1973. Successivamente, il ministero pastorale dei vescovi è stato articolato nel Codice di Diritto Canonico del 1983, nell’Esortazione apostolica post-sinodale Pastores gregis di Giovanni Paolo II del 2003 e, soprattutto, nel Direttorio Apostolorum successores della Congregazione per i Vescovi del 2005.

Il legislatore del Codice ha anche precisato che il vescovo diocesano nella diocesi a lui affidata è investito di tutta l’autorità ordinaria, personale e diretta, che è richiesta per l’esercizio dell’ufficio (can. 381 § 1 del Codice di Diritto Canonico). Per autorità ordinaria la Chiesa intende l’autorità connessa all’ufficio (e non delegata a una persona specifica), che nel vescovo diocesano è propria e non vicaria (can. 131 PCC). Il vescovo diocesano, in quanto successore dell’Apostolo nella Chiesa particolare a lui affidata, agisce quindi in nome proprio e non in nome del Papa. Deve però mantenere l’unità ecclesiale con il Vescovo di Roma. L’autorità diretta, invece, è legata al diritto di agire direttamente nei confronti del gregge a lui affidato, e non solo attraverso gli organi uninominali o plurinominali che operano nella diocesi (vicario generale, vicario episcopale, sinodo diocesano, curia diocesana, tribunale ecclesiastico…). Allo stesso modo, ogni fedele di una Chiesa particolare ha il diritto di rivolgersi direttamente al proprio Vescovo.

Il Vescovo diocesano, in quanto sostituto dell’Apostolo, è investito di un triplice potere: legislativo, esecutivo e giudiziario. La potestà legislativa è sempre esercitata da lui stesso, quella esecutiva e giudiziaria da lui stesso o attraverso le autorità sopra menzionate (canone 391 del Codice di diritto canonico). Il legislatore del Codice specifica che il Vescovo diocesano, nell’esercizio del suo ministero pastorale, deve prendersi cura di tutti i fedeli affidati alle sue cure (can. 383 del Codice). Il legislatore del Codex elenca i doveri pastorali del Vescovo: cura dei presbiteri (can. 384 Codex); cura delle nuove vocazioni sacerdotali e religiose (can. 385 Codex); predicazione di tutta la dottrina cristiana in materia di dottrina e di morale e cura dell’insegnamento catechistico e omiletico (can. 386 CPC); cura del ministero pastorale di tutti i fedeli affidati alle sue cure (can. 383 Codex). 386 CPC); cura della crescita spirituale dei fedeli attraverso i sacramenti celebrati (can. 387 CPC); promozione di varie forme di apostolato (can. 394 CPC); visita (can. 396-398 CPC). Si può anche menzionare l’ampia facoltà di derogare al diritto ecclesiastico concessa ai vescovi diocesani (decreto conciliare Christus Dominus, 8b; can. 87 PCC). Inoltre, il vescovo diocesano deve custodire l’unità di tutta la Chiesa, mantenere la disciplina comune a tutta la Chiesa e far rispettare tutte le leggi ecclesiastiche. Deve vigilare affinché gli abusi non si insinuino nella disciplina, specialmente per quanto riguarda il ministero della parola, l’amministrazione dei sacramenti e dei sacramentali, il culto di Dio e dei santi e l’amministrazione dei beni ( Costituzione conciliare Lumen Gentium, n. 23; can. 392 PCC). Si tratta quindi di una preoccupazione per l’unità ecclesiale che si esprime nell’unità della fede, della disciplina e dei sacramenti.

I Vescovi esercitano la loro autorità in comunione con gli altri vescovi. Il legislatore del Codice ha precisato che la conferenza episcopale, che è un’istituzione permanente, è una riunione dei vescovi di un Paese o di un territorio specifico, che svolge insieme determinati compiti pastorali per i fedeli del suo territorio, al fine di moltiplicare il bene donato al popolo dalla Chiesa, principalmente attraverso forme e modi di apostolato opportunamente adattati alle attuali circostanze di tempo e di luogo, con l’osservanza del diritto (can. 447 CIC). Il ruolo della conferenza episcopale (conferenza episcopale) è stato elaborato dal punto di vista teologico nel „Motu Proprio” Apostolos suos di Giovanni Paolo II del 1998. Al punto quindici di questo documento si legge: „La necessità, nella nostra epoca, di unire le forze condividendo conoscenze ed esperienze all’interno delle conferenze episcopali è stata chiaramente sottolineata dal Concilio quando ha affermato che i vescovi spesso non sono in grado di adempiere ai loro compiti in modo adeguato e fruttuoso se non continuano a rafforzare e unire la loro cooperazione consensuale con gli altri vescovi„. È impossibile fare un elenco esaustivo delle questioni che richiedono tale cooperazione, ma è ovvio a tutti che la promozione e la protezione della fede e della morale, la traduzione dei libri liturgici, il risveglio e la formazione delle vocazioni al sacerdozio, la compilazione di manuali di catechesi, la cura dello sviluppo delle università cattoliche e di altre istituzioni educative, la promozione dell’unità dei cristiani, le relazioni con le autorità secolari, la difesa della vita umana, della pace e dei diritti umani (compreso lo sforzo di proteggerli attraverso la legislazione civile), il rafforzamento della giustizia sociale, l’uso dei media, ecc., sono questioni che indicano oggi la necessità per i Vescovi di agire insieme”. È importante anche che il Codice Legislativo specifichi che la Conferenza episcopale può emanare decreti generali ed esecutivi solo quando ciò è consentito dal diritto universale o da un incarico speciale della Santa Sede. In caso contrario (con le risoluzioni emanate), la competenza di ciascun vescovo diocesano nella sua Chiesa particolare rimane inalterata (canone 455 del Codice di diritto canonico).

Oltre ai Vescovi diocesani, altri Vescovi (i cosiddetti vescovi titolari) devono distinguersi per la loro sollecitudine apostolica verso la Chiesa particolare e universale. Il Vescovo coadiutore (vescovo con diritto di successione all’ufficio di vescovo diocesano) e i vescovi ausiliari hanno il compito di assistere il vescovo diocesano nell’intero governo della diocesi, nonché di sostituirlo in caso di assenza o impedimento nel suo ministero pastorale (canone 405 del Codice di Diritto Canonico). Possono essere incaricati di compiti speciali ed esercitare l’autorità esecutiva nella diocesi nel ruolo di vicari generali e vicari episcopali (can. 406 del Codice di Diritto Canonico). D’altra parte, i vescovi che hanno rinunciato al loro ufficio e che sono stati accettati dal Vescovo di Roma acquisiscono lo status di vescovo emerito (canoni 401-402 del Codice di Diritto Canonico).

Nella conclusione della citata Istruzione Ecclesiae imago, la Congregazione per i Vescovi ha riassunto la missione pastorale del vescovo: „Il massimo per il Vescovo: venire per primo significa andare avanti, presiedere significa servire, governare significa amare, e il rispetto coincide con il dovere (onere). L’ufficio episcopale non è più la base degli onori temporali, ma è un peso che schiaccia le spalle del vescovo, purificando la dignità episcopale da tutta la sporcizia della vanità esterna e del dominio secolare”. Parole simili sono contenute nel Direttorio della Santa Sede sul ministero pastorale dei vescovi, che menziona la responsabilità dei Vescovi per l’ufficio che ricoprono: „Il Signore Gesù accompagna costantemente la sua Chiesa e i suoi servi, specialmente i vescovi ai quali ha affidato la guida della Chiesa: con questo ufficio dona la grazia, con il peso dona la forza” (Direttorio Apostolorum successores, n. 232). Queste parole dei documenti fanno parte della regola di Papa Bonifacio VIII: „Rationi congruit, ut succedat in onere, qui substituitur in honore”, che puo essere tradotto con le parole: „E’ giusto che chi si assume un onere si assuma anche gli onori connessi”

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